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Postato da Alberto Faurooggi, 18:39
Io ho letto un racconto breve di Luis Sepùlveda, che, chissà perchè, mi ha colpito.
Con il procedere della vita, quante "storie" non risolte ci siamo lasciati alle spalle? Legami, un tempo stretti, che si sono persi, travolti dal flusso dell'esistere, estinti senza una precisa ragione, dimenticati. Vecchi amici persi di vista, amori giovanili sbiaditi dal tempo, luoghi dove hai abitato, scuole dove hai vissuto, ideali ormai intiepiditi, nemmeno ripudiati ma solo diluiti fino alla completa soluzione...
Quanti sogni, quante fantasticherie, quanti rimpianti ci accompagnano ancora?
Qualche volta l' inaspettato accade, il passato si ripresenta per darci una nuova, insperata, possibilità, ma è solo un' illusione: siamo noi che ce ne siamo andati, siamo diversi, incapaci (o impauriti?) di riafferare l'attimo.
Il protagonista del breve racconto s'illude per un breve momento che un pezzo della sua esistenza gli sia restituito dal destino, ma s'inganna crudelmente.
D'altro canto, chi di noi avrebbe, d'un tratto, abbandonato la sua vita balzando sul predellino del treno in partenza, appena scorta Elena? Voi? Io?
UN INCONTRO PUNTUALMENTE MANCATO
Ortega caricò la sveglia, sistemò il segnale d'allarme in modo che suonasse esattamente alle quattro e mezzo del mattino e, per maggiore sicurezza, telefonò a un amico chiedendogli di chiamarlo alla stessa ora.
Mentre si scioglieva le stringhe delle scarpe decise che era stupido coricarsi, precipitare fra le bianche barriere di un'insonnia sicura. Così si allontanò dal letto, andò al lavabo e si rinfrescò la faccia con acqua fredda. Subito dopo si gettò la giacca sulle spalle, uscì per strada e si avviò verso la stazione centrale.
Quando arrivò all'enorme edificio grigio, non volle entrare immediatamente. Odiava in particolar modo quell'atmosfera di noia creata dai passeggeri che aspettano un treno locale fra sigarette e sbadigli. Aveva tempo. Mancavano ancora più di quattro ore all'arrivo annunciato con un telegramma di inumana laconicità. Entrò in un piccolo caffè.
«Arrivo treno cinque e un quarto. Stop. Aspettami. Stop. Elena. Stop.»
Quando la ragazza gli mise davanti il bicchierino di cognac, si rese conto di essere tranquillo. S'accorse che l'inquietudine che lo tormentava da settimane era scomparsa e che, al suo posto, l'assurda certezza di essere ancora innamorato arrivava quasi a irritarlo.
La telefonata di Elena l'aveva sorpreso nell'intimità del suo appartamento di uomo solo, mentre si dedicava a sviscerare i ricordi che trasudavano dalle pagine di un romanzo di Semprùn.
L'inconfondibile voce di Elena l'aveva scosso a tal punto che era ammutolito, tenendo la cornetta in mano quasi si trattasse di un rettile, e lei aveva domandato più volte se gli aveva fatto venire un infarto.
Con una laconicità simile a quella del telegramma gli aveva detto che si trovava di nuovo a Parigi, che arrivava da Madrid dove aveva ancora alcuni amici, e che era più vecchia, parecchio più vecchia, aveva sottolineato.
Quindici anni lasciano le loro tracce perverse nei capelli bianchi e nelle rughe che pian piano ci trasformano l'anima in una cartina di posti e di emozioni morte.
«Frasi da tango», aveva replicato Elena. «Nient'altro.»
Ortega assaporò il primo sorso di cognac e si disse che era assurdo invecchiare. Si ripeté che era morboso guardarsi ogni mattina allo specchio e vedere che un pezzo di vita, imprescindibile, e di noi stessi, è rimasto in qualche posto della stanza dove abbiamo dormito, perduto per sempre. Maledicendo ancora una volta lo scrittore imboscato sotto la sua pelle, Ortega non poté evitare di sorridere pensando alla sua stanza verso le nove del mattino, quando la donna delle pulizie vuotava i portaceneri, apriva le finestre e scuoteva le lenzuola. Quanti capelli, ricordi, frammenti di pelle, sogni, forfora e minuscoli brandelli di una persona cadono e servono da concime ai rosai del cortile. Gli tornò in mente un viaggio con Elena, uno dei tanti viaggi in treno da Madrid a Barcellona, da Barcellona a Valenza. Viandante, non c'è sentiero...
Durante quel viaggio, ora impossibile da localizzare esattamente nei labirinti della memoria, Ortega le aveva spiegato nei dettagli la trama di un racconto che un giorno o l'altro avrebbe scritto. Era molto semplice.
Un uomo nasce su un treno, in un vagone di seconda classe. È nutrito con il latte che proviene dalle varie stazioni in cui si ferma il convoglio. L'uomo cresce, impara le cose banali ma necessarie che lo legano alla realtà concreta, ma non lascia mai il treno. Conduce un'esistenza tranquilla, limitandosi a guardare fuori dal finestrino, finché la bestiolina dell'amore non inizia a scavarsi una tana fra la sua pelle e la sua camicia. L'uomo si accorge allora di possedere un dono sconosciuto. Può evitare qualsiasi tipo di complicazione esistenziale semplicemente scendendo alla prima stazione e prendendo il treno in senso inverso. Può ripetere quello stratagemma riparatore quando vuole, non appena la minima difficoltà minaccia di sconvolgere la sua tranquilla vita di passeggero.
«Questa si chiama la filosofia di togliere il culo da sotto alla siringa», aveva replicato Elena.
Quando ritrovò la parola, la voce di Elena stava formulando alcune domande dalla cornetta.
«E tu? A quanto pare sei rimasto ad Amburgo per sempre. Suppongo che ti troverò trasformato in un perfetto signore tedesco. Usi anche uno di quei berretti blu da marinaio? Hai con te una dolce tedeschina a cui insegni ordinatamente a odiare l'ordine? Ti sono arrivate le mie lettere? Hai mai risposto?»
Quindici anni. Parigi. Quella città idiota.
Si erano separati quando l'ultima sigaretta era stata spazzata via da svogliati operai municipali, e l'ultimo grido di ribellione urlava il suo pentimento nello studio di un agiato padre di famiglia.
Dei vecchi compagni della C.N.T. non restava che un vecchio taccuino con degli indirizzi, per lo più cancellati.
Elena.
Quando il sacro ordine aveva invaso vittorioso le strade parigine e i francesi avevano preso a ostentare con più fervore che mai la stupidità della propria arroganza, loro avevano iniziato una disordinata serie di itinerari forzati, che avevano condotto Elena in un caldo paese centroamericano e lui nella verde città di Amburgo, dove ora l'aspettava bevendo il suo terzo bicchierino di cognac. Ogni tanto aveva casualmente incontrato vecchi conoscenti, uomini che quando ricordavano quei tempi abbozzavano una smorfia gentile, guardavano l'orologio e si scusavano di dover partecipare a riunioni improrogabili.
Da alcuni di loro aveva saputo che Elena viaggiava per paesi dai nomi che sanno di frutta, di avventure di pirati, di ore silenziose davanti a mari trasparenti, di pelli dall'amabile sfumatura ambrata.
Pagò la consumazione e s'avviò. Quando entrò nella stazione si fermò davanti al tabellone degli arrivi e guardò su quale binario sarebbe giunto l'espresso Parigi-Varsavia. Scese le scale e aspettò. Mancavano ancora cinque minuti.
Ortega si sedette su uno scalino e decise di prepararsi le parole necessarie. Parole che sarebbero servite da ponte per superare un abisso di quindici anni.
Anche se tenta di evitarlo, parleranno necessariamente di quei giorni, dei sogni, del vogliamo l'impossibile, del domani è il primo giorno del resto della tua, eccetera. Degli slogan che a volte, quando incontrava Dani «il rosso» trasformato in un impeccabile editore di giornali e riviste illegali, gli salivano in gola come una fastidiosa secrezione, segno del desiderio di rigettare il boccone amaro di quella storia.
Una voce anonima che annunciava l'arrivo dell'espresso lo distolse dalle sue elucubrazioni prima che avesse trovato le parole. Il treno si fermò e Ortega si alzò in piedi, raddrizzò la testa quanto glielo permettevano i muscoli del collo e cominciò a esaminare le facce assonnate dei viaggiatori che scendevano e i volti nervosi di quelli intenti a salire con il biglietto in mano. In mezzo agli spintoni si sentì prendere da un nervosismo crescente. Non gli erano mai piaciuti né gli incontri né i saluti. Per loro, la Comune era stata proprio quello, la possibilità d'una vita continuata, senza limiti. Affrettò il passo sul marciapiede, scrutando l'interno fiocamente illuminato del treno. Correva quando arrivò agli ultimi vagoni e il fischio che ordinava la partenza lo colse in mezzo a una volata folle, mentre schivava come un giocatore di rugby i passeggeri in ritardo ed evitava di sbattere contro i carrelli de lla posta. I tre minuti di sosta erano svaniti troppo in fretta per uno che ha aspettato quindici anni. Pensò a un errore di itinerario, a uno sbaglio del telegrafista, ma quando il treno si stava già muovendo scorse il volto di Elena delineato dietro i vetri.
Elena!, gridò. Elena!
La donna si limitò a rispondergli con un sorriso. Gli mandò un lieve bacio chiuso tra le dita, e gli indicò la parola Varsavia sul lato della carrozza.
Ortega rimase immobile, vedendo scomparire il treno in uno squarcio di luce mattutina che già s'insinuava nel cielo, e pensando all'alba si illuse di averla capita. Elena. Varsavia. Lottare contro il potere. Cazzo! La stessa storia.
Con il procedere della vita, quante "storie" non risolte ci siamo lasciati alle spalle? Legami, un tempo stretti, che si sono persi, travolti dal flusso dell'esistere, estinti senza una precisa ragione, dimenticati. Vecchi amici persi di vista, amori giovanili sbiaditi dal tempo, luoghi dove hai abitato, scuole dove hai vissuto, ideali ormai intiepiditi, nemmeno ripudiati ma solo diluiti fino alla completa soluzione...
Quanti sogni, quante fantasticherie, quanti rimpianti ci accompagnano ancora?
Qualche volta l' inaspettato accade, il passato si ripresenta per darci una nuova, insperata, possibilità, ma è solo un' illusione: siamo noi che ce ne siamo andati, siamo diversi, incapaci (o impauriti?) di riafferare l'attimo.
Il protagonista del breve racconto s'illude per un breve momento che un pezzo della sua esistenza gli sia restituito dal destino, ma s'inganna crudelmente.
D'altro canto, chi di noi avrebbe, d'un tratto, abbandonato la sua vita balzando sul predellino del treno in partenza, appena scorta Elena? Voi? Io?
UN INCONTRO PUNTUALMENTE MANCATO
Ortega caricò la sveglia, sistemò il segnale d'allarme in modo che suonasse esattamente alle quattro e mezzo del mattino e, per maggiore sicurezza, telefonò a un amico chiedendogli di chiamarlo alla stessa ora.
Mentre si scioglieva le stringhe delle scarpe decise che era stupido coricarsi, precipitare fra le bianche barriere di un'insonnia sicura. Così si allontanò dal letto, andò al lavabo e si rinfrescò la faccia con acqua fredda. Subito dopo si gettò la giacca sulle spalle, uscì per strada e si avviò verso la stazione centrale.
Quando arrivò all'enorme edificio grigio, non volle entrare immediatamente. Odiava in particolar modo quell'atmosfera di noia creata dai passeggeri che aspettano un treno locale fra sigarette e sbadigli. Aveva tempo. Mancavano ancora più di quattro ore all'arrivo annunciato con un telegramma di inumana laconicità. Entrò in un piccolo caffè.
«Arrivo treno cinque e un quarto. Stop. Aspettami. Stop. Elena. Stop.»
Quando la ragazza gli mise davanti il bicchierino di cognac, si rese conto di essere tranquillo. S'accorse che l'inquietudine che lo tormentava da settimane era scomparsa e che, al suo posto, l'assurda certezza di essere ancora innamorato arrivava quasi a irritarlo.
La telefonata di Elena l'aveva sorpreso nell'intimità del suo appartamento di uomo solo, mentre si dedicava a sviscerare i ricordi che trasudavano dalle pagine di un romanzo di Semprùn.
L'inconfondibile voce di Elena l'aveva scosso a tal punto che era ammutolito, tenendo la cornetta in mano quasi si trattasse di un rettile, e lei aveva domandato più volte se gli aveva fatto venire un infarto.
Con una laconicità simile a quella del telegramma gli aveva detto che si trovava di nuovo a Parigi, che arrivava da Madrid dove aveva ancora alcuni amici, e che era più vecchia, parecchio più vecchia, aveva sottolineato.
Quindici anni lasciano le loro tracce perverse nei capelli bianchi e nelle rughe che pian piano ci trasformano l'anima in una cartina di posti e di emozioni morte.
«Frasi da tango», aveva replicato Elena. «Nient'altro.»
Ortega assaporò il primo sorso di cognac e si disse che era assurdo invecchiare. Si ripeté che era morboso guardarsi ogni mattina allo specchio e vedere che un pezzo di vita, imprescindibile, e di noi stessi, è rimasto in qualche posto della stanza dove abbiamo dormito, perduto per sempre. Maledicendo ancora una volta lo scrittore imboscato sotto la sua pelle, Ortega non poté evitare di sorridere pensando alla sua stanza verso le nove del mattino, quando la donna delle pulizie vuotava i portaceneri, apriva le finestre e scuoteva le lenzuola. Quanti capelli, ricordi, frammenti di pelle, sogni, forfora e minuscoli brandelli di una persona cadono e servono da concime ai rosai del cortile. Gli tornò in mente un viaggio con Elena, uno dei tanti viaggi in treno da Madrid a Barcellona, da Barcellona a Valenza. Viandante, non c'è sentiero...
Durante quel viaggio, ora impossibile da localizzare esattamente nei labirinti della memoria, Ortega le aveva spiegato nei dettagli la trama di un racconto che un giorno o l'altro avrebbe scritto. Era molto semplice.
Un uomo nasce su un treno, in un vagone di seconda classe. È nutrito con il latte che proviene dalle varie stazioni in cui si ferma il convoglio. L'uomo cresce, impara le cose banali ma necessarie che lo legano alla realtà concreta, ma non lascia mai il treno. Conduce un'esistenza tranquilla, limitandosi a guardare fuori dal finestrino, finché la bestiolina dell'amore non inizia a scavarsi una tana fra la sua pelle e la sua camicia. L'uomo si accorge allora di possedere un dono sconosciuto. Può evitare qualsiasi tipo di complicazione esistenziale semplicemente scendendo alla prima stazione e prendendo il treno in senso inverso. Può ripetere quello stratagemma riparatore quando vuole, non appena la minima difficoltà minaccia di sconvolgere la sua tranquilla vita di passeggero.
«Questa si chiama la filosofia di togliere il culo da sotto alla siringa», aveva replicato Elena.
Quando ritrovò la parola, la voce di Elena stava formulando alcune domande dalla cornetta.
«E tu? A quanto pare sei rimasto ad Amburgo per sempre. Suppongo che ti troverò trasformato in un perfetto signore tedesco. Usi anche uno di quei berretti blu da marinaio? Hai con te una dolce tedeschina a cui insegni ordinatamente a odiare l'ordine? Ti sono arrivate le mie lettere? Hai mai risposto?»
Quindici anni. Parigi. Quella città idiota.
Si erano separati quando l'ultima sigaretta era stata spazzata via da svogliati operai municipali, e l'ultimo grido di ribellione urlava il suo pentimento nello studio di un agiato padre di famiglia.
Dei vecchi compagni della C.N.T. non restava che un vecchio taccuino con degli indirizzi, per lo più cancellati.
Elena.
Quando il sacro ordine aveva invaso vittorioso le strade parigine e i francesi avevano preso a ostentare con più fervore che mai la stupidità della propria arroganza, loro avevano iniziato una disordinata serie di itinerari forzati, che avevano condotto Elena in un caldo paese centroamericano e lui nella verde città di Amburgo, dove ora l'aspettava bevendo il suo terzo bicchierino di cognac. Ogni tanto aveva casualmente incontrato vecchi conoscenti, uomini che quando ricordavano quei tempi abbozzavano una smorfia gentile, guardavano l'orologio e si scusavano di dover partecipare a riunioni improrogabili.
Da alcuni di loro aveva saputo che Elena viaggiava per paesi dai nomi che sanno di frutta, di avventure di pirati, di ore silenziose davanti a mari trasparenti, di pelli dall'amabile sfumatura ambrata.
Pagò la consumazione e s'avviò. Quando entrò nella stazione si fermò davanti al tabellone degli arrivi e guardò su quale binario sarebbe giunto l'espresso Parigi-Varsavia. Scese le scale e aspettò. Mancavano ancora cinque minuti.
Ortega si sedette su uno scalino e decise di prepararsi le parole necessarie. Parole che sarebbero servite da ponte per superare un abisso di quindici anni.
Anche se tenta di evitarlo, parleranno necessariamente di quei giorni, dei sogni, del vogliamo l'impossibile, del domani è il primo giorno del resto della tua, eccetera. Degli slogan che a volte, quando incontrava Dani «il rosso» trasformato in un impeccabile editore di giornali e riviste illegali, gli salivano in gola come una fastidiosa secrezione, segno del desiderio di rigettare il boccone amaro di quella storia.
Una voce anonima che annunciava l'arrivo dell'espresso lo distolse dalle sue elucubrazioni prima che avesse trovato le parole. Il treno si fermò e Ortega si alzò in piedi, raddrizzò la testa quanto glielo permettevano i muscoli del collo e cominciò a esaminare le facce assonnate dei viaggiatori che scendevano e i volti nervosi di quelli intenti a salire con il biglietto in mano. In mezzo agli spintoni si sentì prendere da un nervosismo crescente. Non gli erano mai piaciuti né gli incontri né i saluti. Per loro, la Comune era stata proprio quello, la possibilità d'una vita continuata, senza limiti. Affrettò il passo sul marciapiede, scrutando l'interno fiocamente illuminato del treno. Correva quando arrivò agli ultimi vagoni e il fischio che ordinava la partenza lo colse in mezzo a una volata folle, mentre schivava come un giocatore di rugby i passeggeri in ritardo ed evitava di sbattere contro i carrelli de lla posta. I tre minuti di sosta erano svaniti troppo in fretta per uno che ha aspettato quindici anni. Pensò a un errore di itinerario, a uno sbaglio del telegrafista, ma quando il treno si stava già muovendo scorse il volto di Elena delineato dietro i vetri.
Elena!, gridò. Elena!
La donna si limitò a rispondergli con un sorriso. Gli mandò un lieve bacio chiuso tra le dita, e gli indicò la parola Varsavia sul lato della carrozza.
Ortega rimase immobile, vedendo scomparire il treno in uno squarcio di luce mattutina che già s'insinuava nel cielo, e pensando all'alba si illuse di averla capita. Elena. Varsavia. Lottare contro il potere. Cazzo! La stessa storia.
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