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Postato da fabrioggi, 19:08
Nel corso di alcuni viaggi in estremo oriente sono venuto in contatto con realtà assai bizzarre dalle quali ho imparato (rispettosamente senza mai praticare) che la condizione più immediata per accostarci al sacro è quella di guardare dentro noi stessi. Sembra banale, scontato e anche un po' “animista” forse, tuttavia le esperienze dirette che ne ho avute mi hanno lasciato, credetemi, incantato. Non è il caso che annoi questo sito con fatti occorsimi che hanno avuto dell'incredibile, in bilico tra la suggestione in cui si è rifugiata la mia parte “illuminista” e il divino col quale, del tutto involontariamente, mi sono trovato a dover fare i conti.
Riporto questo mio personale vissuto perché sia gli occasionali maestri che in esso mi hanno guidato, sia il mio stesso naturale atteggiamento – con tutto il ritardo che un lento occidentale accumula in certi approcci – hanno generato spontaneamente situazioni contestuali di silenzio. La condizione per cui accadano alcune cose o per cui si odano certe voci è che ci sia silenzio.
Un silenzio vivo, non moderno, non beckettiano che voleva, in un teatro buio, una sola voce d'attore che tace, un silenzio che si meraviglia, capace di stupirsi, un silenzio, insomma, che non faccia “paura”: credo che Mati abbia ragione quando ne fa notare i potenziali lati terrifici.
Insomma, di fronte al sacro, che sia una pietra, un albero o noi stessi, bisogna acquisire la capacità di restare in silenzio. Favete linguis (trattenete la lingua), era la formula latina in occasione dei sacrifici (sacer ficare – rendere sacro). Così è anche in un altro ambito al quale a me piace sempre ricorrere per giocare un po', quello cioè della musica. Da dove nasce la musica, il linguaggio universale che sale e scende gli spazi dell'animo e raggiunge tutti senza bisogno di traduzioni? Dal silenzio! Provate ad ascoltare l'inizio del poema sinfonico Così parlò Zarathustra di Richard Strass: inizia in modo celeberrimo, e significativo per questa nostra discussione, con una tonalità che Strass stesso definì vuoto. Il vuoto in musica è sinonimo d i silenzio, di pausa, proprio quelle pause che, inframmezzate al discorso musicale, creano aspettativa, emozione. Inizia, dicevo con un vuoto che assomiglia ad un brusio, la natura primigenia che prende coscienza di sé, appunto, nel silenzio. Poi la musica, lenta e con un disegno preciso, sale, il tramonto si fa alba, arriva l'uomo, l'oltreuomo di Nietzsche, inizia ad avanzare verso il mondo che lo ascolta e riesce, adesso, ad udirne nettamente il dire, che diventa impetuoso, quasi arrogante, fino a che la creazione non ha termine, e allora vediamo l'uomo allontanarsi e lo “sentiamo” spegnersi in quel suo momento primo su un'ultima, bassa nota d'organo.
Anche nella vita, se vogliamo davvero trasmettere qualcosa di alto e di altro da noi, che però provenga dalle nostre commozioni più profonde e dal nostro più inconsapevole rispetto verso il sacro, abbiamo bisogno di silenzio (non di vuoto, per carità: quello abbonda!).
Ciò che vorrei dire, in particolare a Laura (oltre al mio schietto apprezzamento per come scrive), è che non condivido il suo esempio al quale rispettosamente ribatto con: non abbiamo bisogno di guerra per sapere che la pace è bella. Abbiamo, della guerra, una specie di conoscenza subliminale, coltivata nelle letture, ahimé germogliante ancora oggi in esperienze nemmeno troppo lontane. No, non credo che sia una semplice “reazione” quella della ricerca del silenzio, piuttosto una innata esigenza dell'uomo ad allontanarsi dalle fonti del suo contrario.
Da dove nasce, infatti, il rumore se non dalla necessità di abbattere la comunicazione rendendola mera trasmissione di informazioni? Il rumore dell'oggi è la voce tracotante financo delle guerre, dell'egoismo di chi, nella semplificazione, vede possibile ogni cosa, riesce persino a giustificare il proprio passaggio nel tempo senza domande, senza che questi, di conseguenza si accorga di tale passaggio.
“Sento” nel rumore dell'oggi il berciare fastidioso degli sprechi che diventano un modello, della follia del “…ma tanto sono tutti uguali!” brodo di coltura del disgusto politico che affligge l'Italia, del mutismo imbarazzante che cala come una scure su numerosi rapporti di coppia, infine, un inaridirsi in generale delle relazioni umane.
Ma, va detto, io sono un pessimista senza sbocchi…silenzioso, tuttavia.
Riporto questo mio personale vissuto perché sia gli occasionali maestri che in esso mi hanno guidato, sia il mio stesso naturale atteggiamento – con tutto il ritardo che un lento occidentale accumula in certi approcci – hanno generato spontaneamente situazioni contestuali di silenzio. La condizione per cui accadano alcune cose o per cui si odano certe voci è che ci sia silenzio.
Un silenzio vivo, non moderno, non beckettiano che voleva, in un teatro buio, una sola voce d'attore che tace, un silenzio che si meraviglia, capace di stupirsi, un silenzio, insomma, che non faccia “paura”: credo che Mati abbia ragione quando ne fa notare i potenziali lati terrifici.
Insomma, di fronte al sacro, che sia una pietra, un albero o noi stessi, bisogna acquisire la capacità di restare in silenzio. Favete linguis (trattenete la lingua), era la formula latina in occasione dei sacrifici (sacer ficare – rendere sacro). Così è anche in un altro ambito al quale a me piace sempre ricorrere per giocare un po', quello cioè della musica. Da dove nasce la musica, il linguaggio universale che sale e scende gli spazi dell'animo e raggiunge tutti senza bisogno di traduzioni? Dal silenzio! Provate ad ascoltare l'inizio del poema sinfonico Così parlò Zarathustra di Richard Strass: inizia in modo celeberrimo, e significativo per questa nostra discussione, con una tonalità che Strass stesso definì vuoto. Il vuoto in musica è sinonimo d i silenzio, di pausa, proprio quelle pause che, inframmezzate al discorso musicale, creano aspettativa, emozione. Inizia, dicevo con un vuoto che assomiglia ad un brusio, la natura primigenia che prende coscienza di sé, appunto, nel silenzio. Poi la musica, lenta e con un disegno preciso, sale, il tramonto si fa alba, arriva l'uomo, l'oltreuomo di Nietzsche, inizia ad avanzare verso il mondo che lo ascolta e riesce, adesso, ad udirne nettamente il dire, che diventa impetuoso, quasi arrogante, fino a che la creazione non ha termine, e allora vediamo l'uomo allontanarsi e lo “sentiamo” spegnersi in quel suo momento primo su un'ultima, bassa nota d'organo.
Anche nella vita, se vogliamo davvero trasmettere qualcosa di alto e di altro da noi, che però provenga dalle nostre commozioni più profonde e dal nostro più inconsapevole rispetto verso il sacro, abbiamo bisogno di silenzio (non di vuoto, per carità: quello abbonda!).
Ciò che vorrei dire, in particolare a Laura (oltre al mio schietto apprezzamento per come scrive), è che non condivido il suo esempio al quale rispettosamente ribatto con: non abbiamo bisogno di guerra per sapere che la pace è bella. Abbiamo, della guerra, una specie di conoscenza subliminale, coltivata nelle letture, ahimé germogliante ancora oggi in esperienze nemmeno troppo lontane. No, non credo che sia una semplice “reazione” quella della ricerca del silenzio, piuttosto una innata esigenza dell'uomo ad allontanarsi dalle fonti del suo contrario.
Da dove nasce, infatti, il rumore se non dalla necessità di abbattere la comunicazione rendendola mera trasmissione di informazioni? Il rumore dell'oggi è la voce tracotante financo delle guerre, dell'egoismo di chi, nella semplificazione, vede possibile ogni cosa, riesce persino a giustificare il proprio passaggio nel tempo senza domande, senza che questi, di conseguenza si accorga di tale passaggio.
“Sento” nel rumore dell'oggi il berciare fastidioso degli sprechi che diventano un modello, della follia del “…ma tanto sono tutti uguali!” brodo di coltura del disgusto politico che affligge l'Italia, del mutismo imbarazzante che cala come una scure su numerosi rapporti di coppia, infine, un inaridirsi in generale delle relazioni umane.
Ma, va detto, io sono un pessimista senza sbocchi…silenzioso, tuttavia.
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